I SOCI RACCONTANO
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Qui di seguito
racconteremo fedelmente diverse testimonianze vissute direttamente da
alcuni nostri soci che hanno partecipato in qualità di carabinieri agli
eventi bellici del secondo conflitto Mondiale. Ho raccolto personalmente
questi episodi, non nascondendo una forte commozione ogni volta che mi
trovo a rileggerli. Spero che i loro profondi e significativi contenuti
umani ed emotivi diano a tutti noi l'opportunità di riflettere sugli
errori commessi in passato e la spinta necessaria per migliorare
l'attuale qualità dei rapporti umani e sociali.
Franco Mogetta
La prima testimonianza viene raccontata dall’App.to
Rapari Umberto
classe 1915 arruolato nell’Arma il 17 marzo del 1936. Dopo il periodo di
nove mesi trascorso alla scuola allievi di Roma, viene mandato come prima
destinazione ad Ortona a Mare, la sua permanenza nell’Arma prosegue
nella città di Francavilla a Mare e presso la Stazione di Scerni in
provincia di Chieti. Nel 1939 viene trasferito in forza al battaglione di
Bolzano nel quale dopo un breve ritorno a Scerni viene destinato
definitivamente. L’episodio che sta per raccontare risale alla notte tra
l’8 e il 9 settembre 1943. “Nel
giorno del fatto ero in servizio presso la Stazione Carabinieri di S.
Michele Appiano (prov. Bolzano) comandata dal M.llo Mag. ZAVATTARO
Giuseppe che a sua volta dipendeva gerarchicamente da un ispettore.
Trovandomi in libera uscita, prima di ritornare in caserma passai in un
negozio di generi alimentari, dove
mi rifornivo quotidianamente dei generi alimentari necessari per la
caserma. Nel negozio si vociferava che era stato firmato l'armistizio;
essendo il paese pieno di soldati tedeschi, questo evento rappresentava
per noi motivo di pericolo per le eventuali rappresaglie. Trovandomi al
momento in uniforme rientrai in caserma per mettermi in abiti civili, ma venni fermato dal Ten. Gilli il quale mi ordinò di recarmi in
servizio perlustrativo del paese unitamente ad un Carabiniere aggiunto e a
quattro alpini con orario 24.00 - 04.00. Armato di moschetto modello 91 e
di pistola a tamburo, senza discutere gli ordini mi misi al comando del
drappello per il servizio di perlustrazione.
Giunti
verso le ore 3 del mattino, mentre ci stavamo avvicinando in caserma,
notai nei pressi di una scuola elementare un drappello di
tedeschi. Insieme ai miei colleghi cercai di aggirare la piazza in cui ci
trovavamo per evitare il contatto con gli stessi. Non
riuscimmo in questo intento perché mentre attraversavamo una zona appena
illuminata, gli stessi si accorsero di noi e dopo averci invitato ad
arrenderci e deporre le armi, aprirono immediatamente il fuoco con armi
automatiche colpendo, credo mortalmente, due dei miei colleghi che caddero
ai miei piedi. Risposi al fuoco con la pistola d’ordinanza e venni
anch’io colpito in più punti del corpo, cercai disperatamente di
ripararmi dietro una grande quercia per proteggermi dalle altre raffiche
di mitra. Rimasi
a terra senza sensi perdendo copiosamente sangue dalle ferite fino alle
ore 10 circa del mattino, quando una bambina, figlia della bidella della
scuola elementare, giocando fuori della scuola si accorse di me. La
bambina chiamò immediatamente la mamma, la
quale accorse immediatamente e trovandomi in un lago di sangue mi portò
nell’interno della scuola e mi fascio le ferite con delle strisce di
lenzuolo per calmare la fuoriuscita del sangue.
La
figlia della bidella dietro mia richiesta avvertì dell’accaduto la
proprietaria del negozio di generi alimentari, la quale a sua volta
conoscendo un caporale tedesco che avevo anch’io conosciuto nel negozio,
mi fece accompagnare dallo stesso all'’ospedale Militare Italiano
evitando così di essere condotto in quello tedesco. Il dottore che per 20
giorni mi ebbe in cura mi considerò un miracolato, perché uno dei
proiettili era passato tra l’intestino e la spina dorsale senza ledere
organi importanti. Finito
il periodo di ricovero, prima di essere trasferito all’Ospedale militare
tedesco, riuscii sempre con l’aiuto della proprietaria del negozio del
genere alimentari ad ottenere un permesso per cure in famiglia con
accompagnamento, questo significava che ero riuscito ad evitare il campo
di concentramento. Del
mio accompagnamento si fece garante il Sig. Falappa Giuseppe di Filottrano,
il quale era venuto all’ospedale militare per rintracciare il figlio del
quale non aveva più notizie, in effetti il figlio anche lui militare era
ricoverato ferito nel mio stesso ospedale. Arrivai a Pollenza dopo due
giorni di treno. Dopo alcuni mesi, guarito completamente, ritornai in
servizio a Montefano, mentre i tedeschi comunque continuavano a
rastrellare i Carabinieri." Per
questo episodio, dal forte contenuto di valori umani, basta pensare alla
solidarietà ricevuta anche dal caporale tedesco, l’Appuntato Umberto
Rapari venne nel 20/03/1950 insignito di attestato del Ministero della
Difesa e fregiato di medaglia di bronzo al valore Militare con la seguente
motivazione: “di pattuglia insieme con carabiniere meno anziano e con
quattro alpini in un paese dell’alto Adige, nella notte del 9 settembre
del 1943, veniva affrontato da una pattuglia di quindici soldati tedeschi
ed invitato ad arrendersi. Con decisione e sprezzo del pericolo, conscio
dell’atto che compiva, reagiva immediatamente impegnandosi in cruenta
impari lotta durante la quale rimaneva gravemente ferito”.
La seconda testimonianza ci viene
resa con un pò di commozione dal socio Carabiniere Mogetta
Dino nato a Pollenza
nell’11/10/1920 ed è ambientata anch’essa durante il secondo
conflitto Mondiale e precisamente nell’anno 1944. “Ero
in forza come Carabiniere alla Legione di Bolzano e precisamente nel posto
fisso dell’altopiano di Renon, i tedeschi e precisamente le S.S.
rastrellavano la zona disarmando i Carabinieri e li inviavano nei campi di
concentramento. Nel paese viveva un proprietario di alcuni alberghi
della zona e segretario politico dei giovani avanguardisti
tedeschi. Questo signore, dopo aver avvertito il Brigadiere che comandava
la stazione e altri colleghi, insieme a due militari delle S.S. si presentò in caserma
imponendoci a noi Carabinieri rimasti di consegnare le armi comunicandoci che l’indomani saremmo stati trasferiti
in un campo di concentramento.
Si salvò casualmente dal rastrellamento il V. Brigadiere che era appena tornato dalla scuola sottufficiali di Firenze.
Il
Brigadiere, figlio di genitori Italo-Ebrei si allontanò la sera precedente
con la speranza di raggiungere la Svizzera attraversando a piedi la valle
del Serentino e il fiume Adige; non sono riuscito mai a sapere se fosse
riuscito nel suo intento, considerando il fatto che il territorio che
doveva attraversare era pieno di soldati tedeschi.
Nella
mattina del giorno di permanenza nella caserma in attesa di essere
trasferito, mentre ero intento a cuocere un pezzo di carne in una cucina a
legna, sentii la porta della stanza aprirsi lentamente e girandomi vidi
costui, che affacciandosi con un sorriso di sfida pronunciò: “Il mondo
gira”.
Lascio
a voi interpretare l’amaro significato della breve frase. Fummo
trasferiti per la quarantena al campo di concentramento austriaco di
KAISSER STEIN BRUCK 17/A dove un giorno si presentarono degli ufficiali
della Milizia Italiana. Noi italiani prigionieri fummo riuniti nello
spazio antistante la baracca e a due a due venivamo chiamati presso un
tavolo dove un ufficiale ci formulava la seguente domanda: “vuoi tu
venire in Italia a combattere per l’Italia e per il comune nemico?”
chi accettava veniva fatto uscire dal recinto per poi essere portato chissà
dove, forse la Russia era una meta probabile. Chi invece come me non
accettava, veniva spedito lungo una scarpata con la minaccia di finire i
pochi giorni rimasti tra la fame e i pidocchi. Dopo 40 giorni passati in
quel campo fummo trasferiti presso il lagher tedesco di LESING, a 10 Km da
Vienna, dove sono rimasto tutto il 1944. Durante la permanenza venivamo
utilizzati come operai edili a favore di alcune ditte che svolgevano
lavori nei paesi limitrofi. Quotidianamente venivamo portati con scorta
tedesca sul posto di lavoro. Mi ricordo che per alcuni giorni, insieme a
13 compagni fui trasferito in un nuovo campo nei pressi di Vienna, dove
dei responsabili di una ditta edile ci prelevavano per portarci ad
INDERBRUL per demolire l’armatura di un ponte del tratto di strada
chiamata la strada dell’asse. La
vita nel lager naturalmente era durissima, vivevamo stretti in baracche di
legno, dormivamo su letti a castello con materassi senza più paglia
nell’interno e ci coprivamo con una coperta da casermaggio. La
colazione, quando c’era, consisteva in 1/2 bicchiere di tè, poi al
lavoro anche se pioveva o nevicava. Il pranzo che il più delle volte
veniva consumato nel posto di lavoro consisteva in l/2 litro di brodaglia
dai componenti indecifrabili. Mentre la sera la cena era abbondante;
consisteva in 300 g. di pane con 100 g. di margarina. Il
crudele episodio che vi sto per raccontare avvenne nel lager durante una
delle poche mattine in cui non venivamo portati a lavorare. Il
campo era situato in una zona dove erano presenti numerose attività, tra
le quali una centrale elettrica di trasmissione, una fabbrica di
riparazione piccoli aerei, una stazione ferroviaria con parco merci
destinate in Russia e un magazzino militare sotterraneo, per questi motivi
era esposto a dei bombardamenti. Nelle
prime ore del mattino di quel giorno, senza suono di allarme, i caccia
bombardieri Anglo-Americani iniziarono il bombardamento della zona. Due
spezzoni del peso di 100 kg l’uno caddero nel campo mentre i prigionieri
erano nelle baracche. Uno degli spezzoni cadde vicino ad un gruppetto di
prigionieri che erano in fila in attesa di farsi al barba o i capelli da
un collega improvvisatosi per l’occasione barbiere. La bomba esplose
mentre un sottufficiale dell’Arma doveva farsi il contropelo, una
scheggia gli asportò di netto la testa sotto le mani del terrorizzato
barbiere, un’altra scheggia colpì un prigioniero nell’addome
facendogli uscire una parte degli intestini. Intervennero i soldati
tedeschi portandoci una coperta per coprire i resti del povero
sottufficiale. Dopo un’inutile ricerca delle parti asportate coprimmo il
corpo e lo portammo in una piccola baracca attigua. Durante
la permanenza nel campo molti furono i tentativi di fuga. Racconto un
episodio: due prigionieri organizzarono una fuga mentre eravamo al lavoro
presso un cantiere edile. Con l'aiuto dell'oscurità si nascosero in un
tombino stradale evitando di rientrare al campo, naturalmente la mancanza
venne notata subito dalla sentinella. Nel frattempo i due coraggiosi si
misero in cammino in direzione Italia per attraversare il confine, dopo
giorni di cammino senza ne mangiare ne bere, esausti si avvicinarono ad
un’abitazione agricola. Molto incoscientemente chiesero da mangiare
qualche cosa. Il contadino molto gentilmente li accompagnò in casa per
rifocillarli ma contestualmente avverti i giovani avanguardisti tedeschi
che li catturò e li fece ricondurre presso il campo di appartenenza”. Il
Carabiniere Mogetta Dino è stato decorato della croce al merito di guerra
per l'avvenuto internamento in Austria e ha ottenuto la concessione al
distintivo d'onore per i patrioti “volontari della libertà” istituito
con decreto luogotenenziale n. 350 del 3/5/1945. Recentemente in base ad
una normativa del 1990 le è stato riconosciuto ad Onorem il grado di
Appuntato.
Il terzo episodio che andiamo a raccontare è accaduto al nostro socio Cacciamani
Pierino, classe 1922, che con un
po’ di comprensiva emozione ci racconta: “Circa
54 anni fa e precisamente il 5 agosto del 1945, all’età di 22 anni, ero
in forza presso la Stazione Carabinieri di Filottrano allora comandata dal
M.llo Vitaletti Filiberto già Comandante della Stazione di Treia. Nella Stazione predetta quattro artificieri provenienti da Ancona stavano procedendo alla rimozione di un’enorme quantitativo di ordigni esplosivi inesplosi durante il secondo conflitto Mondiale e raccolti dai militari su segnalazione dei cittadini al fine di bonificare il territorio di competenza. L’esplosivo
veniva caricato su degli autocarri per poi essere portato in polveriera ad
Ancona. Tale operazione provocò un’improvvisa esplosione nell’interno
della caserma la quale era situata quasi al centro di Filottrano,
distruggendola completamente. Nel grave incidente rimasero uccisi i quattro Artificieri, due Carabinieri, tra i quali un certo Cingolani di Treia e il M.llo Vitaletti con la moglie e la donna di Servizio. Miracolosamente tra i superstiti figuravo anche io insieme ad un Carabiniere di Treia (un certo Castellani Walter) e il figlio di tredici anni del M.llo. Fummo salvati dopo molte ore passate sotto il cumulo delle macerie dai Vigili del Fuoco di Osimo. Io dovetti la salvezza ad un architrave che nel crollare insieme all’edificio mi fece da protezione evitando il sicuro schiacciamento. La seguente cronistoria ci viene raccontata dall’appuntato CACCIAMANI Rinaldo, attuale Alfiere della nostra Sezione. Rinaldo, classe 1912, nasce il 5 aprile in Argentina nella città di Loboulaye. Dopo un anno torna in Italia con la sua famiglia e viene ad abitare a Pollenza in C/da Morazzano. Nel 1932 si arruola per chiamata nell’Esercito Italiano per far parte del 3° Reggimento Artiglieria Reggio Emilia. Essendo il 3° di cinque figli, dopo 6 mesi viene messo in congedo. Avendo un attaccamento particolare per l’Arma dei Carabinieri, (tuttora ancora forte) vi inoltra domanda di arruolamento. Fino al 1939 non riceve chiamata, quindi rimane a Pollenza svolgendo l’attività di agricoltore con la sua famiglia. Allo scoppio della Guerra viene richiamato a Reggio Emilia sempre nel 3° reggimento artiglieri, e portato al fronte ai confini con l’ex Jugoslavia. La data di partenza rimane impressa nella mente di Rinaldo, poiché ricadde nel giorno 13 giugno, mentre a Pollenza era in svolgimento l’annuale e molto sentita processione di S. Antonio. Mentre era al fronte divenne padre di una bimba dal nome Delia e per questo tornò a casa per un breve periodo. Ritornato in Servizio fu destinato al fronte Albanese. Dopo 6 mesi di presenza al fronte venne presa in considerazione la domanda di arruolamento inoltrata a suo tempo e venne richiamato a Roma per frequentare la scuola Allievi effettivi. Dopo pochi mesi fu destinato di Servizio alla Stazione CC. Flaminia, che dipendeva dalla Compagnia di viale Mazzini. Il compito principale era quello della vigilanza del materiale militare, incarico molto delicato e rischioso considerato il periodo di pieno conflitto bellico. “Era il settembre del 43,“ ci racconta Rinaldo ”a Roma echeggiava il gesto eroico del sacrificio del Vicebrigadiere Salvo D’Acquisto, avvenuto vicino Torrempietra. I Nazisti, dopo l’armistizio dell’8 settembre, continuarono la guerra soprattutto contro i Carabinieri, i quali come sempre si schierarono contro le truppe di occupazione e a tutela delle popolazioni inermi. Il Comando militare Tedesco per questi motivi mise in atto il disarmo dei Carabinieri della Capitale e il loro trasferimento nell’Italia settentrionale. Ero di servizio ad un’ambasciata, della quale non ricordo il nome, e ad un tratto il rombo degli aerei da bombardamento si fece irresistibile. Segui un consistente bombardamento della Capitale, alcune bombe caddero anche nei pressi dell’ambasciata, fortunatamente senza procurarmi danni fisici. Il M.llo Comandante della Stazione chiamò tutti i Carabinieri alle sue dipendenze e ci ordinò per il momento di allontanarci dalla Capitale. Tornai per 15 giorni a casa, mi presentai al gruppo di Macerata e venni assegnato prima presso la Stazione CC. Di Montecassiano poi fino al 1945 alla Stazione di Jesi. Mi viene in mente un piccolo episodio accadutomi durante la mia permanenza alla Stazione CC. Di Montecassiano: Quasi quotidianamente mi veniva ordinato di andare dalla Stazione CC. di Montecassiano alla Compagnia CC. Di Macerata per ritirare la posta, naturalmente con l’unico mezzo che avevamo a disposizione: “la bicicletta”. Un giorno, mentre mi trovavo nel viaggio di ritorno, lungo la discesa di Villa Potenza iniziò un terribile bombardamento aereo Tedesco. Per ripararmi dalle eventuali schegge, mi precipitai in sella alla bicicletta nella parte posteriore di una casa colonica posta vicino la strada che stavo percorrendo. Cercai di proteggermi facendomi scudo con la porta della stalla, ma lo spostamento d’aria provocato da una bomba caduta nelle vicinanze sollevò la porta che stavo tenendo provocandomi la lacerazione di una mano, tanto che dovetti ricorrere alle cure sanitarie presso l’ospedale di Macerata. Rinaldo Cacciamani è stato decorato con la croce di guerra, ed attualmente gli è stato riconosciuto ad onorem il grado di appuntato. Questa testimonianza, dai contenuti profondi e significativi, ci viene resa dal C.re PIRCHIO Oliviero, uno dei primi soci iscritti alla nostra Sezione. Oliviero, nato a Recanati il 2 marzo del 1921, si arruolò nell’Arma dei Carabinieri alla giovane età di 19 anni. Correva l’anno 1940, dopo aver trascorso alla scuola allievi effettivi di Roma, con un duro addestramento, acquisì la qualifica di mitragliere autotrasportato. Con questa qualifica, Oliviero era addetto alla mitragliatrice FIAT che veniva trasportata dai mezzi blindati, famosa per la sua potenza di fuoco. Finita la Scuola Allievi, iniziò la vera esperienza nell’Arma del Carabinieri. Oliviero, ci tiene a precisare che, al contrario dei tempi attuali, i Carabinieri di qualsiasi grado allora venivano rispettati e ammirati per la delicata ed importante missione che erano chiamati a svolgere. Per un breve periodo svolse servizio nella città di Milano, prevalentemente di rappresentanza in grande uniforme al teatro La Scala. In seguito venne trasferito nelle Marche, presso la Stazione CC. di San Benedetto del Tronto comandata dal M.llo Climi di Messina. Anche a S. Benedetto svolgeva servizi di rappresentanza e di vigilanza alle linee ferroviarie. Scoppiò la guerra e come tantissimi altri suoi amici fu inviato al fronte Slavo e precisamente presso il Quartier Generale di Belgrado, con compiti di scorta agli Ufficiali con orario 24 ore su 24. Periodicamente nelle città Slave venivano fatti dei rastrellamenti organizzati per la ricerca delle armi nascoste nelle abitazioni, ai quali partecipavano anche i Carabinieri. In Jugoslavia rimase per circa due anni nella quasi impossibilità di tornare a casa. Molti sono gli episodi che Oliviero ha da raccontare dall’esperienza vissuta nel fronte Slavo, ma per la sua intensità, ne riportiamo uno in particolare. “Dopo
circa due anni che non tornavo a casa, mi si presentò l’opportunità di
tornare qualche giorno in permesso a Recanati. Arrivato a Durazzo per
imbarcarmi per Bari, appresi che la nave Italiana salpava dopo due giorni
e non sapendo come fare, mi rivolsi ad un ufficiale di una colonna dell’Esercito
Italiano, che con le autoblindo stava andando ad imbarcarsi per l’Italia
al porto di Zara. Partimmo
alla volta di Ancona e dopo alcune ore di viaggio, nella notte, mentre
dormivamo nella stiva sbattuti qua e la dalle onde altissime che facevano
inclinare la nave, il radar di bordo segnalò la presenza di una mina
sulla nostra rotta e immediatamente fu dato l’allarme di risalire tutti
in coperta. L’Ammiraglio
diede l’ordine tassativo di gettarsi tutti in mare, incaricando gli
Ufficiali di uccidere con un colpo di pistola alla testa chi eventualmente
si fosse rifiutato. Mentre la nave disperatamente iniziava la manovra di
aggiramento della mina, molti furono i militari che si gettarono tra le
onde (vi lascio immaginare la loro fine, basta pensare alla differenza di
temperatura che il corpo doveva sopportare al momento del tuffo nelle
acque dell’Adriatico). Fortunatamente
dopo alcune manovre la nave riuscì ad evitare il contatto con la mina e
io rimasi a bordo. Dopo aver portato a distanza di sicurezza la nave, l’Ammiraglio
ricevette l’ordine di far brillare la mina con le armi di bordo. A causa
del mare mosso che spostava continuamente l’oggetto esplosivo, però l’operazione
si rilevò più difficile del previsto (ci impiegammo 2 giorni).
Riprendemmo il viaggio per Ancona con il pensiero rivolto ai poveri
ragazzi dispersi in mare. Arrivai
ad Ancona ma non ebbi nemmeno il tempo di mettere i piedi nella terra
ferma: fui rispedito immediatamente al fronte” Ritornato in Jugoslavia fu destinato alla 192° sezione del 5° corpo d’Armata con sede a pochi km da Fiume. Dopo la firma dell’armistizio, intuendo il pericolo che tutti i Carabinieri stavano correndo, Oliviero cercò di arrivare in Italia con mezzi di fortuna, giunse a Trieste e per qualche giorno venne ospitato da una famiglia del luogo. La città era piena di tedeschi e fascisti e per non mettere in serio pericolo la famiglia che lo ospitava si presentò spontaneamente presso la Stazione CC. di San Giovanni ritornando immediatamente in Servizio. Ci dice ancora Oliviero: “Una mattina ci fu ordinato di partecipare insieme con i tedeschi e i fascisti ad un rastrellamento di un quartiere di Trieste; il rastrellamento fu motivato dal fatto che da alcune abitazioni venivano esplosi colpi di arma da fuoco all’indirizzo del presidio Tedesco. Il quartiere fu bloccato per la ricerca delle armi, molti furono gli abitanti che vennero caricati nel mezzi tedeschi con direzione sconosciuta, sicuramente trasportati con i treni all’indirizzo dei campi di sterminio. 25 settembre ’43, arrivarono i partigiani e inspiegabilmente i nostri superiori ci ordinarono di deporre le armi. Mentre i numerosi partigiani ci tenevano riuniti in un piazzale con l’intendo di convincerci a far parte delle loro file, transitò un automezzo con alcuni Tedeschi a bordo, i quali aprirono il fuoco nella nostra direzione con le loro armi automatiche mietendo molte vite. Fummo catturati dai tedeschi e ammassati in un silos del porto per due giorni, con la paura di essere tutti fucilati per aver deposto le armi. Un mattino si aprì la porta, entrò un Ufficiale che gridò: “tutti i Carabinieri e Poliziotti fuori” pensammo tutti che era arrivato il nostro momento. Venimmo portati alla Stazione e caricati sul treno in direzione Germania. Dopo circa 4 giorni, senza toccare cibo, il treno arrivò presso un campo di smistamento nei pressi di Lipsia, del quale non ricordo il nome. Io fui messo a disposizione del Sindaco di un paese della zona, che era anche proprietario di una trattoria. Giornalmente venivo inviato al lavoro coatto presso chiunque lo richiedeva, ho svolto i più svariati lavori alcune volte anche in assenza di cibo. Il periodo più lungo lo ho trascorso in una fabbrica di armi dove mi era stato assegnato il compito di fresatore. Il lavoro era pesantissimo e si svolgeva sempre sotto la minaccia delle armi, con il divieto assoluto di fare errori altrimenti veniva applicata la probabile pena della fucilazione. Nel novembre del 1945 gli Inglesi ci liberarono e insieme a tre amici di Fermo rientrai in Italia. Nel 1946 mi congedai dal Servizio.” ROGANTI Mario nato a Pollenza il 05.01.1924, si arruola, il 1 aprile 1943, nell'Arma dei Carabinieri e viene mandato a Moncalieri (TO), dove frequenta la Scuola Allievi. Dopo il corso, viene trasferito a Roma e poi assegnato alla Caserma "Papigno" di Terni, addetto al servizio di sorveglianza degli impianti elettrici. Il 7 ottobre 1943, dopo l'armistizio, lascia il servizio e va a vivere per tre mesi dai nonni a Sant'Angelo in Pontano. All'inizio del 1944, riprende servizio presso la Compagnia di Macerata e viene mandato a Porto Civitanova. Dopo alcuni mesi, precisamente nel giugno del 1944, gli Alleati liberano il territorio maceratese, ponendo fine all'occupazione tedesca nella nostra zona. Il carabiniere Mario Roganti viene all'ora chiamato a far parte della Compagnia Polizia di Frontiera gestita dagli Alleati a Domodossola (NO). Qui egli ha il compito di controllare i passaporti nel distaccamento di Ponte Ribellasca, al confine con la Svizzera. Rimane per due anni in questa località, dove però si ammala e dopo vari ricoveri, viene trasferito all'ospedale militare di Bologna, per ulteriori accertamenti. I medici diagnosticano una grave malattia renale e decidono di asportagli un rene. Viene pertanto inviato ai familiari il seguente telegramma: "Venite subito vostro figlio è in imminente pericolo di morte". Immediatamente Mario, che è orfano, viene raggiunto dal fratello. Dopo una lunga convalescenza Roganti viene congedato e gli viene assegnata una pensione, poiché la Commissione Medica Ospedaliera di Torino che la malattia è stata provocata da acqua non potabile e particolarmente calcarea. Mario Roganti vive ora nei dintorni di Casette Verdini (Pollenza), circondato dall'affetto dei suoi 4 figli e dei nipotini. Credo che queste testimonianze, ci danno la possibilità di conoscere più da vicino i risvolti terribili di un’assurda guerra, con l’obbligo anche nostro di estrarne gli insegnamenti e trasmetterli nello spazio più ampio possibile.
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